I guai politici dell’Italia hanno profonde radici economiche

December 23, 2016

Mark Weisbrot
Business Insider Italia, 9 dicembre, 2016

The Hill, 8 dicembre, 2016
The Huffington Post, 9 dicembre, 2016

In inglese

Vedere l’articolo sul sito originale

La maggior parte dei media, e gli analisti che fanno opinione, hanno fornito una versione fuorviante degli attuali problemi politici in Italia, a seguito del voto di domenica scorsa che ha promosso il “No” nel referendum sui cambiamenti della Costituzione. Sono stati associati in un blocco comune Trump, la Brexit, la crescita dell’estrema destra, i partiti anti Europa o i razzisti e il “populismo” – che nella maggior parte dei media sembrano rappresentare la molla per i politici della demagogia per riuscire a persuadere masse ignoranti a votare per cose stupide. E per “cose stupide” si intende qualsiasi cosa che non piace all’establishment.

Naturalmente noi non disponiamo di una mappa dettagliata che spieghi perché molti elettori italiani hanno rigettato i cambiamenti della Costituzione proposti. La spiegazione più ovvia è che il primo ministro Matteo Renzi, al potere dal febbraio 2014, ha promesso di dimettersi se gli elettori avessero votato “No”. Questa promessa ha mobilitato tutti i suoi avversari politici inclusi alcuni all’interno del suo partito.
Coloro che volevano difendere Renzi hanno avuto un compito difficile. Il premier non stava offrendo un futuro per il paese, specialmente per la popolazione più giovane che, come si è poi scoperto, ha votato “No”. Il tasso di disoccupazione è all’11,6%, e quella giovanile è superiore al 36%. Dei senza lavoro, la maggior parte lo è da molto tempo, essendo stata espulsa dal mercato del lavoro da più di un anno. Inoltre vi sono grosse disparità tra le Regioni, con ampie parti del meno benestante Sud Italia molto colpite dalla recessione mondiale.

Il Fondo Monetario Internazionale ha previsto che l’economia italiana non tornerà ai livelli di Pil del 2007 – cioè quello di nove anni fa – prima della metà del 2020. In altre parole sono circa due decadi perse, come ha notato lo stesso Fmi. Tutto ciò è molto negativo, qualunque sia l’angolo storico da cui la si osservi. In queste circostanze non può sorprendere che gli elettori di tutto lo spettro politico abbiano rigettato i cambiamenti costituzionali che avrebbero assegnato più potere all’esecutivo. Ma un’analisi attenta del voto non può coincidere con la narrazione standard proposta dai media, già distillata in occasione della Brexit e dell’elezione di Trump, che vede da una parte il giovane, educato e pro Europa che vota “Sì” in contrapposizione con lo xenofobo, populista, ignorante e anti Europa che vota No. Entrambi, infatti, avevano ragioni schiaccianti per votare “No”: un futuro cupo sotto l’attuale governo.

Solo su un punto importante esistono similitudini tra l’ascesa di Trump e la caduta di Renzi. Entrambe sono il risultato del fallimento a lungo termine delle politiche neoliberali portate avanti dalla maggior parte dei protagonisti della politica. In entrambi i casi il centrosinistra ha perso una grossa fetta della sua classe media lavorativa perché viene considerato corresponsabile di questo fallimento. Negli Stati Uniti, l’èra neoliberale era stata lanciata in pompa magna da Ronald Reagan, ma Bill Clinton ne diventò ben presto comproprietario contribuendo con l’accordo Nafta, il Wto, la deregolamentazione finanziaria e altre riforme strutturali neoliberali che hanno prodotto danni permanenti.

In Italia hanno trovato cittadinanza riforme neoliberali fin dagli anni ’80, ma la più devastante è stata l’adozione dell’euro nel 1999. Ora uno può pensare che oggi non ci può essere cosa peggiore del dover pronunciare parole come “Il presidente Trump”, ma l’adozione dell’euro ha messo gli italiani in una situazione ancor più difficile. L’Italia hanno perduto il controllo sulle proprie più importanti politiche macroeconomiche (monetaria, fiscale e tasso di cambio), e le hanno cedute ad alcune persone davvero sbagliate della Commissione Europea, Banca Centrale Europea, dell’Eurogruppo dei Ministri delle Finanze e del Fondo Monetario Internazionale.

In effetti vi sono stati alcuni cambiamenti positivi nell’eurozona dal 2012, quando la Bce ha finalmente deciso di agire come una normale banca centrale garantendo effettivamente i titoli obbligazionari dei paesi più evoluti (a parte la Grecia, dove gli italiani hanno insistito con il resto delle autorità europee nell’infliggere brutali punizioni). Il Quantitative easing avviato nel marzo 2015 ha rappresentato un passo in avanti importante. Ha svolto un ruolo significativo nella ripresa – comunque debole – dell’eurozona, inclusa l’Italia che finalmente è riemersa nel 2015 dopo una recessione durata tre anni.

Tuttavia le autorità europee sono ancora impegnate in un programma che promette un’altra decade di disoccupazione di massa, con conseguente indebolimento dell’eurozona e dell’Unione Europea, poiché inevitabilmente gli elettori arrabbiati cercheranno soluzioni alternative e capri espiatori. Il consenso delle élite risiede nella consapevolezza che la ripresa si può ottenere solo con le “riforme strutturali” – vale a dire deregolamentazione dei vari mercati, specialmente quello del lavoro; riduzione dei salari reali; e “svalutazione interna”. La teoria alla base di questa convinzione è che le riforme aumentano l’efficienza e la competitività e consentono la ripresa economica anche se i governi tagliano le pensioni, i servizi sanitari, e altre spese sociali per abbattere i debiti e guadagnarsi la fiducia dei mercati.

Sfortunatamente Renzi fa parte di questo consenso, volontariamente o meno. Il suo Jobs Act, che è entrato in vigore circa due anni fa, è un prodotto tipico delle riforme strutturali. Ha abbassato le protezioni per i lavoratori e reso più facili i licenziamenti e le fuoriuscite di dipendenti, mentre prometteva di incrementare la forza lavoro a lungo termine rispetto ai contratti a tempo. Ma finora è successo il contrario.

Per ricostruire un’economia che possa offrire ai giovani un futuro senza esser costretti a lasciare il paese, l’Italia dovrebbe abbandonare l’euro. O, in alternativa, eleggere un governo che possa minacciare concretamente l’uscita e sia forte abbastanza – appoggiandosi ad alleati di altri governi nell’eurozona – a far cambiare direzione alle autorità europee. Ma le opzioni al momento sul tavolo per qualsiasi governo emerga dall’attuale crisi non sembrano andare in questa direzione.


Mark Weisbrot è Co-direttore del Centro di Ricerca Politica ed Economica di Washington, D.C.

Support Cepr

APOYAR A CEPR

If you value CEPR's work, support us by making a financial contribution.

Si valora el trabajo de CEPR, apóyenos haciendo una contribución financiera.

Donate Apóyanos

Keep up with our latest news